Dopo la pandemia: Ripresa e crescita tra Italia e Regno Unito

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Oltremanica
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5 min readMay 20, 2021

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L’Italia e il PNRR , il Regno Unito e il debutto in proprio: pronti a ripartire?

Col diradarsi delle tensioni e delle restrizioni che la pandemia da Covid-19 ci ha imposto, nuove insidie sorgono per il Bel Paese. Il sole che lentamente sembra risorgere dopo più di un anno di oscurità scioglie la neve che aveva ibernato le attività produttive e sociali del Paese, rivelando, però, i risultati disastrosi sui campi gelati. Certo è il caso di gioire per il miglioramento della situazione pandemica, ma una volta posati i flûte, la nostra classe dirigente dovrà fare i conti con i 150 miliardi di Pil persi nel solo 2020, di cui 108 solo nei consumi. L’Italia primeggia a perdite complessive, rimettendoci l’8,9% del Pil contro il 4,4% mondiale.

È un quadro catastrofico quello che si trova ad affrontare il neo-nominato Premier Draghi, che ha dimostrato, però, di avere le spalle larghe abbastanza da sopportare le responsabilità delle sue funzioni. Ed infatti l’uomo del “whatever it takes” non tarda a sfoderare l’arma vincente, e che arma! Sono 248 i miliardi messi sul tavolo dal cocco dell’Unione che, innamorata dell’eroe della crisi del debito sovrano, del principe dalla scintillante armatura, ha elargito all’Italia circa un quarto dell’intero portafoglio del Next Generation EU. Qualcuno negli scranni più alti della gerarchia europea deve aver inteso che la situazione italiana è nera pece e che il Paese non avrebbe probabilmente avuto le forze per risollevarsi da solo, affossando la zona Euro e pregiudicando la ripresa degli altri stati membri.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), il percorso che il governo ha tracciato per sfruttare in modo efficiente gli ingenti fondi corrisposti, disegna l’Italia che verrà come un paese dei balocchi. Sei missioni l’esecutivo corrente e quelli che verranno si impegnano a portare a termine. Sei missioni che intendono ribaltare le sorti del Paese, non solo tirandolo via dal pantano in cui è inesorabilmente precipitato per via della crisi pandemica, ma lucidandolo e mettendolo a nuovo.

In primo luogo, l’esecutivo si impegna a destinare quasi 50 miliardi di investimenti per la digitalizzazione della pubblica amministrazione, ponendo fine al regno grigio della flemmatica burocrazia, per l’innovazione e competitività del sistema produttivo e per lo sviluppo di tecnologie che facilitino il turismo e valorizzino la cultura. La seconda missione, che intercetta i bollori e le spinte delle nuove generazioni in pieno, ha come obiettivo la transizione ecologica. Con questa si intende una serie di misure volte a principiare un processo di cambiamento che renda l’agricoltura più sostenibile, il consumo energetico più rinnovabile, gli edifici più efficienti e che protegga il territorio dall’inquinamento e dagli effetti collaterali dello sviluppo capitalistico. In questo punto l’esecutivo riconosce l’ecosistema come un bene comune non solo da tutelare, ma su cui investire nell’interesse della qualità della vita della collettività tutta. Per questo scopo sono stanziati quasi 70 miliardi. Seguono poi l’ammodernamento ed allargamento delle infrastrutture di trasporto e logistiche per 30 miliardi, il potenziamento dei servizi di istruzione di ogni ordine e grado e dei fondi destinanti alla ricerca per 33 miliardi, e quindi le politiche per il lavoro, le infrastrutture sociali e la coesione territoriale per cui sono stanziati 30 miliardi.

Infine, la sesta missione ha come obiettivo il potenziamento della sanità italiana con il miglioramento dell’assistenza sanitaria territoriale e la telemedicina da una parte, e l’innovazione e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale dall’altra. I sei punti del piano colpiscono probabilmente le maggiori debolezze del Sistema Paese, indirizzando gli investimenti nazionali in ambiti strategici per lo sviluppo. Certo ci sono dei grandi esclusi, come l’efficientamento delle politiche fiscali, la facilitazione dell’accesso al credito e la perpetua crisi migratoria, ma certo 235 miliardi, per quanto sia una cifra esorbitante, non bastano certo a fare il paese vecchio nuovo.

L’accesso ai fondi europei, e le conseguenti garanzie che il governo italiano ha dovuto assicurare in termini di good governance, sono alla base di questo sogno italiano di lungo respiro che dalla stagnazione pandemica mira a portare l’Italia su di un cammino di sviluppo economico e sociale. In questo senso l’Unione fa non solo da creditore, ma anche da supervisore, in un certo senso schermando la ripresa dall’influsso di populismi e politiche di corto raggio.

Il vicino Regno Unito, firmate ormai ufficialmente le carte di divorzio ed abbandonata la casa coniugale, può contare solo sulle sue forze per recuperare quei 10 punti di Pil persi a causa della pandemia. Senza le pressioni di un superiore, il Regno Unito non ha stilato un piano strategico dettagliato, ma ha incluso le manovre di ripresa nel bilancio annuale. Per questo motivo è difficile e tedioso ricavare le cifre esatte del rilancio, che comunque sembrano ammontare a circa 200 miliardi di pound secondo alcune stime, mentre più facile è recuperare gli ambiti di intervento. Il Primo Ministro Johnson ha elencato tre pilastri della ripresa e tre obiettivi strategici che l’esecutivo si prefigge di raggiungere. In primo luogo, larga parte dei fondi sembra essere destinata allo sviluppo di infrastrutture tecnologiche, logistiche e territoriali attraverso la neo-fondata UK Infrastructure Bank. In questo modo il governo intende attrarre investimenti privati che possano avere impatto sociale e sulle comunità locali. Il secondo pilastro è l’istruzione, intesa però come formazione professionale ed estesa a tutte le fasce di età. Infine, Il governo si impegna a finanziare ed incentivare l’innovazione tecnologica e non. Gli incentivi economici e di semplificazione burocratica mirano infatti non solo alla digitalizzazione delle imprese ed istituzioni, ma anche e soprattutto a startup e nove idee che possano dare nuovo impulso alla crescita del Paese.

In questo senso è fatta menzione del desiderio di attrarre le migliori menti da tutto il mondo favorendo l’immigrazione di professionisti di alto rango. Queste tre aree d’investimento rispondono trasversalmente a tre obiettivi: livellare i livelli di sviluppo umano ed economico nelle regioni del regno, ponendo le basi per avere almeno una città di spicco che funga da centro culturale e produttivo per ogni regione, finanziando i centri di eccellenza e dislocando i funzionari dello stato fuori da Londra e nel resto del Regno; supportare la transizione ecologica e raggiungere le zero emissioni nette finanziando il settore eolico e di decarbonizzazione ed arrivando a vietare la vendita di auto a combustibili fossili; potenziare la propria influenza nell’arena internazionale divenendo un modello di apertura e commercio equo e solidale.

Il Regno Unito, come l’Unione e l’Italia, ha riconosciuto l’importanza di indirizzare il percorso di ripresa e crescita nel post-pandemia verso obiettivi sostenibili e di grande impatto sociale, rimediando agli errori passati. Ad oggi, appare evidente, non ci sono le condizioni per un’uscita dalla crisi con un boom spregiudicato come quello che ha caratterizzato il dopoguerra. Certo è che i risultati economici, sociali ed ambientali, per la prima volta, non dipenderanno solo dal vecchio continente, ed ormai neppure dal nuovo. Saranno probabilmente le realtà asiatiche emergenti a siglare il risultato della ripresa. Avrà il colosso cinese avuto la stessa intuizione sull’impatto sociale della sua ripresa e crescita post-pandemica?

Di Luca Mariano Mariano.

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